30 ottobre 2023

L'UE va a caccia di litio &C. ma senza soldi né indotto

Maria Maggiore
Maria Maggiore
ARMI SPUNTATE L’Unione corre per non restare indietro sui materiali critici per le transizioni green e tech ma mancano fondi comuni e filiera: l’unica via è cercare in Africa e America Latina.
Il terreno sta lentamente franando sotto Kiruna, cittadina di 18 mila abitanti nella Lapponia svedese, dove la più grande miniera di ferro europea è attiva dalla fine dell’800. Gli scavi hanno messo a rischio la solidità delle fondamenta e così nel 2018 le autorità locali hanno cominciato a spostare la cittadina di qualche chilometro, anche per lasciare lo spazio a uno dei più grandi giacimenti di terre rare al mondo scoperto nel frattempo. Lo spostamento di case, uffici, scuole, ospedali sarà a carico dalla società mineraria pubblica Lkab, che nel 2022 ha dichiarato il raddoppio del fatturato rispetto al 2020, 23 miliardi di euro in un anno.

Molto più a sud, nella regione portoghese di Tras os Montes, la società mineraria britannica Savannah Resources ha una licenza per estrarre litio, fondamentale per la produzione di batterie elettriche. Qui dovrebbe esserci la riserva più grande d’Europa, l’azienda britannica promette di alimentare con il litio portoghese 500mila auto elettriche l’anno. Nel nord della Grecia, a Kassandra, la società canadese ElDorado Gold ha recintato un’intera montagna ed estrarrà rame, con la sua filiale Hellas Gold, anche se questa è stata ripetutamente condannata per violazione delle norme ambientali con processi ancora in corso. 
Il più grande deposito di terre rare in Europa è stato scoperto di recente a Kiruna, dove la più grande miniera di ferro europea torreggia sopra la città. Foto di Lars-Ola MarakattLars-Ola Marakatt

Litio, terre rare, cobalto, nichel, rame, sono le nuove forze trainanti dell’economia come il carbone lo è stato nell’800 e il petrolio nel 900. Auto elettriche, turbine eoliche, ma anche smartphone e microchip per computer e armi dipendono dai minerali. Solo che l’Europa ha chiuso le sue miniere 40 anni fa: da allora ne è diventata consumatore anziché produttore e oggi dipende quasi interamente dall’estero, da Africa, Asia e soprattutto dalla Cina, “unico fornitore” per il 100% delle terre rare, per il 97% della grafite e del magnesio. Pechino controlla pure il mercato della loro più profittevole trasformazione. 
“Se ora volessimo produrre terre rare nella UE, dovremmo passare dalla Cina per alcune fasi di trasformazione in magneti – spiega Stephane Bourg del Servizio geologico francese –. Nella UE non ci sono impianti che trasformano l’ossido di terre rare in metallo di terre rare, un passaggio cruciale. Se scaricassi 10 mila tonnellate di ossido di neodimio nel vostro giardino, non sapreste cosa farne”. A Bruxelles si cerca da anni di correre ai ripari. “La nostra principale preoccupazione è l’eccessiva dipendenza da un’unica fonte di approvvigionamento – spiega a Investigate Europe Thierry Breton, Commissario UE per il mercato interno –. Quando la Russia è in guerra, la Cina vieta le esportazioni o c’è un terremoto in Cile, possiamo avere un problema”.

Quest’anno i pianeti si sono allineati per Breton: in gennaio la svedese Lkab ha annunciato un enorme giacimento di terre rare a Kiruna, sempre in gennaio la Svezia ha iniziato la presidenza semestrale della UE. E il Ceo di Lkab è diventato presidente di Euromines, una grossa lobby mineraria a Bruxelles: “Dobbiamo dimostrare che il Green Deal non è fatto in Cina”, ha detto a IE il suo direttore generale, Rolf Kuby. Due mesi dopo, in marzo, la Commissione ha proposto un nuovo regolamento sulle miniere e la trasformazione dei minerali, la Legge per le materie prime critiche (CRMA). Entro il 2030 la UE dovrà estrarre almeno il 10% di materie prime critiche, riciclare il 15%, trasformare in prodotti il 40% del consumo e dipendere non più del 65% da un solo Paese terzo. Ma soprattutto, il CRMA propone di accelerare l’iter delle licenze per nuove esplorazioni. Dai 10-15 anni che occorronoin media per aprire una nuova miniera, si chiede di rispondere alle imprese in 24 mesi e, in linea con le richieste dell’industria, si potrà dare l’autorizzazione per progetti “strategici” dannosi per l’ambiente se di “rilevante interesse pubblico”.

Un programma ambizioso e innovativo, se non fosse nato zoppo.

Alle proposte del regolamento non si accompagna infatti alcun piano finanziario nonostante la stessa presidente della Commissione Von Der Leyen avesse annunciato un anno fa, nel suo discorso sullo stato dell’Unione, l’imminente creazione di un fondo sovrano europeo, per il futuro dell’industria “made in Europe”, un PNRR bis per la transizione verde, con sussidi e prestiti agevolati raccolti dalla Commissione sui mercati finanziari. Ma il veto dei Paesi del nord (Germania in testa) a nuovi debiti comuni ha fatto naufragare il progetto. Ora si va ognuno per conto proprio. In marzo sono state allentate le regole per gli aiuti di Stato. Il presidente Macron ha annunciato un fondo di 500 milioni per promuovere “l’ascesa di Parigi come leader europeo nella finanza mineraria sostenibile”. Il governo tedesco investirà un miliardo di euro. La Svezia altrettanto. 
La via degli aiuti di Stato rischia però di essere distruttiva per il mercato unico e di creare degli hub di nuove tecnologie verdi in alcuni Paesi del Nord, mentre gli Stati con i conti in rosso resterebbero al palo. È il caso del Portogallo, dove si estrarrà il litio senza però che ci siano ancora investimenti per la sua raffinazione in loco. Lo conferma l’ad di Savannah Resources, Emanuel Proença, aggiungendo che “allo stato attuale delle cose, non escludiamo di collaborare con nessuno. Stiamo rispondendo a una sfida globale. Abbiamo bisogno della partecipazione australiana, cinese e latinoamericana”. D’altronde in Portogallo già funziona così per il rame, lo zinco e il tungsteno. “Produciamo ed esportiamo i concentrati. Il valore aggiunto che deriva dalla loro lavorazione va fuori dal Paese”, spiega il geologo Luís Martins. 
Una miniera di rame in Andalusia, in Spagna. È una delle delle 40/50 miniere di materie prime critiche attive in Europa.

Campi di litio nel deserto di Atacama. L'UE ha recentemente firmato un accordo sulle materie prime critiche con il Cile.

“Non possiamo fare affidamento sugli aiuti di Stato per sviluppare l’Europa –dice a IE la commissaria alla Concorrenza, Margrethe Vestager, che ha dovuto accettare suo malgrado una riforma delle regole europee –. Altrimenti l’Europa non si svilupperà a due velocità, ma a molte velocità diverse”. Vestager è per un vasto piano europeo d’investimenti, che possa tenere testa all’IRA americano da 369 miliardi di dollari, i sussidi concessi alle società – anche europee – che investono nella transizione verde negli Stati Uniti. Secondo la liberale danese, il denaro “non dovrebbe passare dalla Commissione, che non è una banca, ma un’enorme burocrazia”, ma dalla Banca europea degli investimenti, che potrebbe finanziare la creazione di nuove miniere. La UE arriva comunque tardi. Delle 200 maggiori società minerarie globali, solo 15 (l’8%) sono europee e appena 6 nella UE. Canada, Australia e Usa dominano il mercato. Un esempio: dei 7 progetti di estrazione di litio in elaborazione in Europa, tre saranno gestiti da società australiane, due britanniche e una del Sud Africa. 
La caccia alle materie prime, poi, continua soprattutto in Africa, America Latina e in alcuni Paesi asiatici con i maggiori giacimenti di cobalto, litio, nickel, rame e grafite. La Commissione promette di fare meglio dei cinesi che dopo l’estrazione portano i minerali in Cina per la loro trasformazione. “We will do better”, faremo meglio, promette una fonte dell’esecutivo europeo. Lo scopo è sviluppare l’intera catena di produzione creando posti di lavoro e sviluppo economico per le comunità locali che dovranno subire l’impatto ambientale. Dopo aver firmato accordi strategici con Canada, Ucraina, Kazakistan e Namibia, la UE sta ora negoziando con Argentina, Cile, Congo, Australia e Groenlandia. Spera di strappare qualche contratto decennale a cinesi e americani. Ma arriva con le debolezze dell’Europa. Senza soldi, con poco know how minerario. E con un passato di sfruttamento coloniale pessimo, come quello cinese. 

Questo articolo è stato pubblicato anche in versione cartacea e online sul nostro media partner italiano Il Fatto Quotidiano il 30 ottobre 2023.

Grafici a cura di: Marta Portocarrero

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