Il prezzo dell’identità: migliaia di persone trans sterilizzate in Europa

Spoovio/Fanis Kollias

Lorenzo Buzzoni
Lorenzo Buzzoni
Ella Joyner
Ella Joyner
16 settembre 2025
In Europa migliaia di persone trans sono state spinte a sottoporsi a interventi chirurgici invasivi dalle leggi nazionali sulla “sterilità”, rivela un’inchiesta di Investigate Europe.
Per Alexandra, 25 anni, la “M” in grassetto sulla carta d’identità non era un semplice dettaglio burocratico, ma l’ultimo ostacolo all’accettazione sociale. «Non volevo vivere una vita registrata come uomo, quando ho un aspetto femminile e la società mi tratta comunque come donna», racconta. L’unica strada per cambiare quella dicitura era la rettifica legale del genere. Ma nella Repubblica Ceca questo voleva dire sottoporsi a un intervento di sterilizzazione.
Già a 22 anni, Alexandra assumeva Androcur, un farmaco anti-testosterone, ma aveva deciso di non sottoporsi a un intervento chirurgico, che riteneva troppo invasivo. Sebbene i farmaci l'avessero probabilmente già resa sterile, la legge ceca era inflessibile: per ottenere la rettifica anagrafica bisognava «subire un intervento che compromettesse la funzione riproduttiva».
Così, nel 2022, Alexandra si è sottoposta, seppur con riluttanza, a un’orchiectomia, cioè all’asportazione chirurgica dei testicoli. “Non ho preso la decisione perché volevo, ma perché dovevo. Era una questione di avere gli stessi diritti, in sostanza, delle altre donne intorno a me”, dice Alexandra.
L’operazione, durata appena mezz’ora e considerata a basso rischio, era inizialmente riuscita. Ma una settimana dopo, mentre riposava nella sua casa di Plzeň, Alexandra si è svegliata in un lago di sangue a causa di un’infezione. È corsa in ospedale, dove i medici hanno iniziato a visitarla senza anestesia. «È stato il dolore più forte della mia vita». La convalescenza è durata due mesi, trascorsi per lo più immobile a letto.
Alexandra è una delle migliaia di persone trans in Europa che sono state sottoposte ai requisiti di sterilizzazione.Jan Kubice

Migliaia di persone “costrette a scegliere tra  diritti umani” a causa delle norme sulla sterilità

Per decenni, la fertilità è stata considerata il prezzo naturale della transizione di genere e cambiare legalmente sesso in gran parte d’Europa ha richiesto procedure invasive che avevano lo scopo di rendere sterili le persone trans, attraverso l’asportazione chirurgica dei caratteri sessuali primari.
In Belgio, Repubblica Ceca, Germania, Finlandia, Paesi Bassi e Svezia i legislatori, per autorizzare il cambio legale del genere, inserirono esplicitamente nei testi di legge il requisito dell’infertilità. La prima norma fu introdotta in Svezia nel 1972 ed è rimasta in vigore per quarant’anni. L’ultima – quella che ha riguardato Alexandra  – è stata abrogata in Repubblica Ceca solo a giugno di quest’anno.
Secondo una stima conservativa di Investigate Europe basata su dati ufficiali inediti, almeno 11.000 persone sono state sottoposte a tali condizioni in questi paesi. I dati – provenienti da fonti governative, atti giudiziari e studi accademici – evidenziano l’ampiezza di una politica più volte condannata dagli esperti delle Nazioni Unite e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ma rimasta a lungo una realtà in Europa.
Spoovio/Georgina Choleva

Sebbene la parola “sterilizzazione” non comparisse nelle leggi per la rettificazione legale del genere, il Ministero della Salute slovacco aveva imposto linee guida ufficiali in tal senso, e anche in Norvegia e Danimarca si trattava di una prassi consolidata.
Anche in altri paesi come Cipro, Francia, Grecia, Italia e Romania, i giudici per assegnare il cambio di genere richiedevano la prova di un intervento chirurgico che rendeva sterile.
I requisiti di sterilizzazione hanno costretto le persone trans a «scegliere tra due diritti umani fondamentali: il diritto all’integrità fisica o alla libertà da interventi medici indesiderati, e il diritto alla privacy e al riconoscimento legale», spiega Cianán Russell, attivista di ILGA-Europe,  rete mondiale che riunisce associazioni e gruppi per i diritti delle persone LGBTQIA+.
«Se si è obbligati a ‘scegliere’ di sottoporsi a una procedura medica per poter vivere in sicurezza e in libertà – ad esempio per aprire un conto in banca o candidarsi a un lavoro – allora quella procedura medica non è affatto una scelta», sottolinea Russell.

Una questione di interpretazione della legge

Fino al 1982, in Italia le persone transgender non avevano alcuno strumento legale per cambiare sesso e nome sui documenti ufficiali.
Con la legge n. 164 del 1982 venne introdotta per la prima volta in Italia una procedura per la rettifica del genere nei registri civili. La norma non menzionava esplicitamente la sterilizzazione, ma fu interpretata dai giudici come se implicasse l’obbligo di un intervento chirurgico – rimozione o costruzione dei caratteri sessuali primari – per ottenere il riconoscimento legale del cambio di genere.
«Anche se ufficialmente non veniva chiamata sterilizzazione, di fatto lo era. Utero, ovaie e testicoli dovevano essere rimossi, perché vigeva l’obbligo di eliminare i gameti. L’idea di fondo era che la persona fosse anormale, malata e non dovesse riprodursi», spiega la dottoressa Stefania Bonadonna, coordinatrice della Commissione incongruenza di genere dell’Associazione medici endocrinologi.
Questa interpretazione è rimasta dominante fino al 2015, quando due sentenze fondamentali – la n. 15138 della Corte di Cassazione del 20 luglio 2015 e la n. 221 della Corte Costituzionale del 21 ottobre 2015 – hanno chiarito che l’intervento chirurgico non è una condizione necessaria per cambiare genere nei registri anagrafici.
In Italia non esiste un registro nazionale che documenti quante persone si siano sottoposte a intervento chirurgico di riassegnazione del sesso. Contattato da Investigate Europe, il governo non è stato in grado di fornire i dati richiesti. Anche l’Istat ha confermato di non disporre di queste informazioni, precisando che negli ultimi anni ha realizzato soltanto indagini sulle discriminazioni subite dalle persone transessuali in ambito lavorativo.
L’unico dato disponibile proviene da uno studio basato sulla S.C. Clinica Urologica di Trieste, uno dei principali centri per la riassegnazione chirurgica del sesso in Italia, che registrava 232 interventi eseguiti tra il 1994 e il 2013. Si tratta però di una stima parziale, che non permette di stabilire quante persone siano state sterilizzate in Italia dal 1982, anno di approvazione della legge sulla rettificazione del genere, fino al 2015, quando l’obbligo implicito dell’intervento chirurgico è stato superato dalle sentenze della Cassazione e della Corte costituzionale.
Se tecnicamente la rettificazione anagrafica del genere è volontaria, la vita senza questo riconoscimento può risultare insostenibile. Dall’assistenza sanitaria alla ricerca di un lavoro ai diritti di residenza, i documenti contano e definiscono ciò che siamo.
L’isterectomia a cui Christian Cristalli si è sottoposto nel 2013 non aveva nulla a che vedere con la sua visione personale del proprio corpo, ma soltanto con le condizioni richieste dai giudici italiani. «Ho fatto la mastectomia volontariamente, perché volevo cambiare il mio corpo in un modo che mi facesse sentire bene».
Christian Cristalli racconta che l’intervento di sterilizzazione a cui si è sottoposto nel 2013 gli fu imposto dalle autorità italiane

«La rimozione di utero e ovaie non faceva parte del mio percorso personale. Sono stato costretto a subire l’intervento per ottenere documenti con il mio nuovo nome», spiega oggi il 37enne. «Se la prima operazione mi ha portato gioia e liberazione, la seconda rimane una ferita aperta».
Pur di evitare l’operazione chirurgica, avrebbe persino accettato di mantenere la “F” che sta per il genere femminile sulla carta d’identità, racconta, ma con la laurea alle porte non vedeva altra possibilità per assicurarsi che sul diploma comparisse il nome “Christian”. Il suo nome di nascita lo avrebbe esposto come trans davanti a tutto il suo giro sociale e a ogni futuro datore di lavoro.

L’identità a costo della procreazione

È impossibile sapere come ogni persona abbia vissuto il riconoscimento legale del proprio genere. Molte persone trans scelgono consapevolmente di modificare il proprio corpo in modi che comportano la perdita della fertilità: gonadectomia, vaginoplastica e falloplastica fanno parte del percorso corporeo desiderato. Anche i trattamenti ormonali, usati per modificare voce, peli corporei o seno, sono spesso associati a sterilità. Generazioni di persone trans hanno lottato – e lottano tuttora – per accedere a queste terapie in modo sicuro ed economicamente sostenibile.
«Già negli anni ’90, la chirurgia e la modifica dei caratteri sessuali erano considerate indispensabili e solo chi aveva fatto l’operazione veniva riconosciuto come una “vera” persona trans», spiega Paolo Valerio, presidente dell’ONIG, Osservatorio nazionale sull’identità di genere. «Oggi, invece, la consapevolezza è diversa: non si tratta più di diventare un uomo o una donna, ma di essere riconosciuti come tali».
Resta però una minoranza significativa di persone che non avrebbe voluto sottoporsi a operazioni chirurgiche, se solo avesse potuto ottenere la rettifica anagrafica senza dover rimuovere gli organi sessuali.
Un sondaggio condotto negli Stati Uniti nel 2011 indicava che il 21% degli uomini trans non aveva alcun interesse a sottoporsi a una isterectomia e il 14% delle donne trans non voleva un’orchiectomia. Le persone non binarie, che non si identificano né come uomini né come donne, si dichiarano ancora meno interessate alla rimozione dei caratteri sessuali.
Investigate Europe ha raccolto le testimonianze di oltre una decina di persone con storie simili a quelle di Alexandra e Christian. Almeno tre intervistati hanno raccontato di non essere stati informati in modo adeguato sulla possibilità di preservare i gameti e di aver compreso solo in seguito, con grande rammarico, di aver rinunciato alle proprie prospettive di genitorialità.
«In passato non si parlava di infertilità. Una paziente mi chiese perché nessuno le avesse detto che sarebbe diventata sterile e aggiunse che, se lo avesse saputo, avrebbe preservato i propri gameti tramite crioconservazione. Oggi, invece, queste questioni vengono affrontate apertamente e le persone sono rese consapevoli dei rischi», spiega Massimo Di Grazia, sessuologo e professore all’Università degli Studi di Ferrara.
Alcuni hanno sofferto complicazioni di salute. Altri erano semplicemente arrabbiati, tormentati dalla domanda sul perché lo Stato avesse insistito affinché i loro corpi fossero modificati in modo così radicale da escludere la procreazione. «È stato un atto imposto dallo Stato per rassicurare il sistema che non avrei mai potuto avere figli, per preservare il cosiddetto ordine naturale», denuncia Cristalli.

Diritti violati, giustizia negata

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato diversi Stati, tra cui Francia, Romania e Italia. Nel 2017, i giudici di Strasburgo stabilirono per la prima volta che tali requisiti violavano il diritto alla vita privata delle persone trans, sancito dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Eppure, solo due governi hanno concesso risarcimenti, dopo anni di campagne da parte degli attivisti. Dal 2018, la Svezia ha riconosciuto a 530 persone un indennizzo di 225.000 corone ciascuna (circa 20.000 euro attuali). Dal 2020, i Paesi Bassi hanno versato 5.000 euro ciascuno a 1.259 persone. Attraverso scuse ufficiali, due ministri olandesi hanno definito la legge in vigore tra il 1985 e il 2014 una «violazione dell’autonomia corporea che oggi sarebbe difficile anche solo immaginare».
In Germania, da anni si discute di compensazioni, ma non è ancora stato fatto nulla di concreto. «Le discussioni sulle possibilità di riconoscere le sofferenze e le ingiustizie subite dalle persone transgender e intersex non sono ancora concluse», ha dichiarato un portavoce del Ministero della Famiglia.
Secondo Transgender Europe, in 12 paesi dell’UE sono ancora imposti quelli che l’organizzazione definisce “requisiti medici abusivi”, come diagnosi obbligatorie, interventi chirurgici o trattamenti ormonali.Shutterstock

Investigate Europe ha contattato le autorità di tutti i principali paesi coinvolti in questa vicenda per un commento. La maggior parte, tra cui quello italiano, non ha risposto. A eccezione della Germania, nessun altro ha fatto cenno a possibili scuse.
Nell’ultimo decennio molti paesi hanno adottato modelli meno restrittivi per la rettificazione anagrafica del genere. Belgio, Germania, Lussemburgo, Malta, Portogallo e Spagna utilizzano oggi il cosiddetto modello dell’autodeterminazione, che permette di cambiare il genere ufficiale con una semplice dichiarazione, senza dover fornire prove di interventi chirurgici o diagnosi psichiatriche.
Tuttavia, sebbene i requisiti di sterilità siano stati aboliti nella maggior parte d’Europa, l’associazione Transgender Europe sostiene che in 12 paesi dell’UE, tra cui l’Italia, siano ancora imposti quelli che definisce “requisiti medici abusivi”, come  diagnosi obbligatorie o terapie ormonali che possono condurre alla sterilizzazione. In Ungheria e Bulgaria, invece, il riconoscimento legale del genere è ancora vietato.
L’inchiesta è stata condotta da Investigate Europe, un team transnazionale di giornalisti investigativi provenienti da undici paesi europei. Oltre a essere pubblicata in esclusiva in Italia da Il Manifesto, l’inchiesta è uscita in altri otto paesi: Arte (Francia/Germania), Delfi (Estonia), Denník N (Slovacchia), New Lines (Stati Uniti), Reporters United (Grecia), Taz – Die Tageszeitung (Germania), Dagsavisen (Norvegia), TransTelex (Romania) e Partizan (Ungheria).
L’inchiesta ha ricevuto il sostegno finanziario di IJ4EU (Investigative Journalism for Europe).

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