27 aprile 2023

Plastica boom: la produzione aumenta e il riciclo è una beffa

Maria Maggiore || ""
Maria Maggiore
Lorenzo Buzzoni || ""
Lorenzo Buzzoni
PRESA IN GIRO - L’economia circolare in questo campo è un mito: la reimmissione sul mercato è marginale, i costi li pagano i Comuni.
Vent’anni di leggi sui rifiuti e di campagne sulla raccolta differenziata ci hanno fatto credere che una volta gettata la vaschetta di prosciutto o il vasetto di yogurt nel sacchetto il problema fosse risolto: la plastica verrà riciclata e tornerà nel mercato. Non è così. Nel 2020, su 3,7 milioni di tonnellate di rifiuti plastici in Italia, solo 1,6 milioni (42%) sono stati differenziati e, di questi, il 39% avviato a riciclo. Il resto finisce negli inceneritori o, peggio, in discarica. “Le azioni per ridurre la produzione di rifiuti sono mancate per 20 anni, ci siamo concentrati completamente sul riciclo – ammette Helmut Maurer, ex funzionario della Direzione Economia Circolare alla Commissione Europea – L’economia circolare per la plastica è un mito, il riciclaggio è un processo complesso con grande produzione di CO2. Le componenti della plastica non si possono fondere, si va fuori dal cerchio, perché bisogna aggiungere nuovi additivi chimici e nuova plastica”.

Secondo lo studio del laboratorio REF Eco-design, meglio prevenire che curare, in Italia il tasso di riuso della plastica è appena del 17%: per ogni nuovo prodotto occorre l’83% di plastica nuova, che peraltro costa meno di quella riciclata. E così la produzione di plastica nel mondo aumenta al ritmo di 450 milioni di tonnellate annue. L’OCSE prevede che il consumo di plastica triplicherà entro il 2060. Ma perché?
Gli imballaggi sono la bestia nera dell’inquinamento da plastica, cioè il 95% della plastica raccolta in Italia. Colpa anche del fatto che “solo gli imballaggi di plastica vengono raccolti per il riciclo, spingendo la macchina della produzione”, spiega Rossano Ercolini, presidente di Zero Waste Europe. Ormai si mette un imballaggio per qualunque cosa: frutta sbucciata, verdure, singole merendine. Il packaging fa il prodotto, come ha scritto Confindustria in un documento inviato agli europarlamentari per fare lobby contro la proposta di regolamento UE sugli imballaggi. Va tenuto da conto, vi si legge, pure “il marketing e l’accettazione da parte dei consumatori (…) poiché l’imballaggio non è solo un contenitore”.

Anche se è nato partendo da un principio “nobile” – la “Responsabilità estesa dei produttori” (EPR), per cui chi immette nel mercato un prodotto inquinante, deve pagare – il sistema resta diabolico e porta a sempre maggiori imballaggi. Prima che l’UE recepisse l’EPR nella direttiva rifiuti del 2008, molti paesi europei dalla fine degli anni 90 avevano affidato ai produttori d’imballaggi la gestione della filiera del riciclo. Sono nate le Organizzazioni di produttori (PRO) chiamate a raccogliere un contributo ambientale (CAC) per ogni imballaggio immesso nel mercato e poi versarlo ai Comuni.

In Europa il 60% degli imballaggi di plastica non viene riciclato.Shutterstock

Così fa l’italiano Conai (Consorzio nazionale imballaggi) con 7 PRO (legno, carta, alluminio, acciaio, plastica, bioplastica, vetro), nato nel 1997, decreto Ronchi. Tra i suoi membri figurano i più grossi produttori di plastica, da Versalis (Eni) a Crocco, da Plastotecnica a Pibergroup. Conai si vanta di chiedere ai suoi membri le tariffe più basse d’Europa, che diminuisce se aumentano i profitti del riciclo, così da tenere il bilancio dell’ente no-profit in equilibrio. Nel 2021 i profitti del riciclo sono raddoppiati, il contributo ambientale è quindi diminuito negli anni successivi. Una tonnellata di plastica Pet (la più riciclabile) costava 150 euro a tonnellata nel 2022, oggi 20, l’equivalente di 0,02 centesimi€ su ogni bottiglietta di acqua minerale. Non certo un disincentivo alla produzione.

Un accordo quinquennale tra l’Anci e Conai stabilisce che i Comuni vengano rimborsati per la raccolta differenziata 318 euro a tonnellata, meno la frazione estranea (non imballaggi) raccolta per errore. Corepla (il consorzio per la plastica di Conai) vende poi la plastica alle società di riciclo, traendone profitti. Il resto viene mandato agli inceneritori o in discarica, a spese di Corepla. Nel 2021 Corepla ha versato 375 milioni di euro a circa 8mila Comuni. “I nostri costi per la raccolta della plastica sono 2,5 volte superiori al contributo di Corepla”, assicura una fonte dell’unità rifiuti di una grande città italiana. Non esistono però dati disaggregati sui costi di raccolta della plastica (che i Comuni raccolgono insieme a carta, alluminio e vetro). Conai dichiara che “i corrispettivi riconosciuti da Corepla ai Comuni coprono integralmente i costi della raccolta differenziata dei rifiuti di imballaggi in plastica”. Cita l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), che – basandosi su dati Conai – ha calcolato un costo medio di circa 219 euro/tonn. Un dato smentito dallo studio del professor Alberto Bellini dell’Università di Bologna, per il quale “I valori della banca dati Ispra non sono adatti per un’analisi dei costi efficienti, la suddivisione per componenti non è coerente coi costi reali”. La Regione Emilia-Romagna, ad esempio, ha calcolato un costo a tonnellata di 600-700 euro, il triplo di Ispra. In grossa parte pagato dai contribuenti. E non è un problema solo italiano. In Francia, l’associazione dei Comuni dichiara che Citeo (la PRO francese) paga il 30-40% dei costi per un ammanco di almeno un miliardo. Persino in Norvegia i produttori fanno la cresta: “Paghiamo più di un miliardo di corone (88,6 milioni di euro, NdR) all’anno che i produttori avrebbero dovuto finanziare”, spiega Svein Kamfjord, direttore dell’organizzazione delle aziende pubbliche di rifiuti.

Le PRO hanno il monopolio sui dati della plastica immessa nel mercato. Raccolgono le auto-dichiarazioni su cui poi viene calcolato il contributo ambientale, il tasso di riciclo di un Paese e persino quanto uno Stato deve versare al bilancio europeo come tassa UE sulla plastica. “Il volume degli imballaggi in plastica immessi sul mercato non è verificabile, basandosi su autodichiarazioni di chi poi deve pagare la tassa EPR – spiega un ex dipendente Conai che ha voluto mantenere l’anonimato – Vengono fatti degli audit, ma non c’è un sistema di correzione. E gli audit sono pagati dalla stessa PRO”. In Spagna, il governo delle isole Baleari è riuscito a fare un controllo incrociato nel 2016, arrivando alla conclusione che i Comuni avevano raccolto l’86% in più di quanto dichiarato da Ecoembes. “Ecoembes ci ha ingannato. I loro dati non sono credibili”, ci ha detto l’allora assessore all’Ambiente Vicenç Vidal. Per Ecoembes invece c’erano “gravi carenze metodologiche” nello studio del governo.

Persino il direttore generale della lobby PRO a Bruxelles, Joaquim Quoden (di Expra), ha ammesso che “il free riding (volumi di plastica non dichiarati, NdR) è un problema enorme, in alcuni Paesi intorno al 5-10%, in altri al 50%”. Conai ha risposto che “Le aziende non in regola con gli obblighi EPR, per l’Italia hanno un peso inferiore rispetto agli altri Paesi” grazie al sistema italiano dove il CAC si calcola quando si fattura l’imballaggio. Nel rapporto di gestione 2021, però, Conai riconosce di aver recuperato 20 milioni euro non dichiarati. “Le PRO avrebbero dovuto essere il punto di incontro tra produttori e sistema pubblico. Invece, da un lato, sono diventate istituzioni, punto di riferimento dell’intero sistema, dall’altro sono diventate di parte con una logica aziendale. Lo Stato deve rientrare in gioco”, conclude l’ex impiegato di Conai.

A breve, partirà un nuovo negoziato Anci-Conai per il contributo da versare ai Comuni dopo il 2024. I paletti europei prevedono che dal 2025 i produttori coprano l’80% dei costi per la fine vita degli imballaggi, compresa la raccolta dei rifiuti dispersi (littering). Vedremo se Anci e governo sapranno imporre dei paletti di riduzione degli imballaggi. Oggi tutti i fondi per i progetti territoriali Anci-Conai vanno alle campagne per il riciclo. Niente alla prevenzione dei rifiuti.
L’impianto di termovalorizzazione (inceneritore) di Brescia è uno dei 500 stabilimenti in tutta Europa.Lorenzo Buzzoni

Questo articolo è stato pubblicato il 24 aprile 2024 sul nostro media partner italiano Il Fatto Quotidiano.

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