Il doppiogioco di Orbán: da entrambe le parti, simultaneamente

4 marzo 2022
Attila Kálmán || ""
Attila Kálmán
Per tre mandati il premier ungherese si è opposto a Bruxelles e avvicinato a Mosca. Poi l'invasione Russia dell'Ucraina gli ha fatto rimettere, dolorosamente, i piedi per terra. Ma sembra che Orbán continui a voler restare nelle grazie di grazie di Putin.
“Voglio vincere e mi auguro che possiamo lavorare insieme per molti anni a venire”, ha detto il 1 febbraio Viktor Orbán dopo cinque ore di colloqui con Vladimir Putin. Il premier Unghesere, che il 3 aprile probabilmente vincerà la sua terza elezione consecutiva, ha anche detto di essere andato a Mosca per una “missione di pace”. È tornato soddisfatto, con il presidente russo che gli ha promesso, come bonus, milioni di metri cubi di gas naturale.

Ora, a poco più di un mese dalle elezioni generali ungheresi, Orbán si è visto crollare davanti agli occhi più di un decennio di politica estera russofila. Era necessario un cambio di direzione improvvisa e doveva spiegarlo al proprio elettorato. Molti ora citano 1984 di Orwell dicendo: “Siamo sempre stati in guerra con l’Eurasia”. E non a caso.

12 incontri con Putin in 13 anni

Dopo il 2010, Viktor Orbán ha annunciato una politica di apertura verso l’est e ha lavorato per rinforzare i legami tra Ungheria e Russia. Il premier unghesere ha detto orgogliosamente durante un suo recente viaggio a Mosca di aver incontrato Putin 12 volte in 13 anni. E il Ministro degli Affari Esteri Péter Szijjártó ha recentemente ricevuto il premio “Amici della Russia” (la più grande onorificenza di Stato per i non-russi) dal suo corrispettivo russo Sergei Lavrov. La storia tra i due governi è lunga e tappezzata di favori reciproci.

Rosatom, la corporazione statale russa per l’energia nucleare, intende costruire una centrale nucleare in Ungheria con finanziamenti russi. Con l’appoggio del governo, la Banca internazionale degli investimenti russa si è trasferita a Budapest. Gli oligarchi vicini a Putin e le loro famiglie potevano comprare visti d’oro. I trafficanti d’armi russi arrestati a Budapest sono stati consegnati a Mosca invece che a Washington dal governo ungherese, nonostante la specifica richiesta degli americani. E l’elenco potrebbe continuare.

In cambio è arrivato il gas russo e il partito di Orbán, Fidesz, ha potuto continuare la sua campagna per il taglio delle bollette. Questo punto è talmente importante per loro che dopo l’invasione della scorsa settimana, il Ministro degli Esteri ha detto che avrebbe sostenuto qualsiasi sanzione contro la Russia ma che il taglio dei prezzi del gas non dovesse essere messo a rischio. Lo stesso messaggio è stato anche incluso dal Centro d’informazioni del governo in una lettera inviata a tutti i cittadini ungheresi che si erano registrati per la vaccinazione anti-Covid-19.

Lo scontro con la realtà

Viktor Orbán ha espresso più volte il proprio credo geopolitico: ragiona in termini di una triangolazione Berlino-Mosca-Istanbul e negli ultimi anni ha portato avanti una politica altalenante. Ha combattuto energeticamente la sua battaglia contro “Bruxelles” ma non ha mai veramente criticato Mosca, l’avversaria strategica dell’UE. Sempre di più Orbán è stato visto come l’inviato di Putin nell’UE e nella NATO, i servizi segreti degli alleati non si sono più fidati degli ungheresi e il concentramento di spie russe in Ungheria è cresciuto rapidamente.

Per anni i media hanno ripetuto la narrativa del governo, dicendo che Putin era un amico e che non c’era nulla di sbagliato in Russia. Poi, il 24 febbraio è arrivato lo scontro con la realtà.

Cosa è successo veramente dietro le quinte non lo sappiamo, ma certo è che Viktor Orbán, dopo un’iniziale esitazione, è tornato in riga e ha esteso il supporto dell’Ungheria a tutte le sanzioni contro la Russia. L’illusione di una guerra contro l’UE si è scontrata con la guerra vera e Orbán non ha avuto altra scelta che adeguarsi. Ciononostante, il signore di Budapest ha dichiarato che le sanzioni non sono razionali perché danneggiano anche l’economia ungherese, ammettendo insieme come ora non ci sia spazio per riflessioni come questa.

Elettorato confuso

Per anni gli elettori sono stati condizionati a una logica pro-Russia, anti-UE. Questa inversione di marcia li divide.

In più le relazioni tra governo ungherese e Ucraina si sono deteriorate negli ultimi anni, soprattutto per la legge ucraina sulla lingua che incide sugli ungheresi in Transcarpazia a ovest dell’Ucraina. A inizio febbraio è apparso su un sito propagandistico un articolo sulla legge sulla lingua e su una serie di attacchi verso la minoranza ungherese in Ucraina con il titolo “Schierarsi con l’Ucraina è tradimento”. Dopo l’inizio della guerra il titolo è stato cambiato in “Schierarsi con l’Ucraina?”.

La fretta e il non sapere come muoversi sono palesi: mai prima d’ora l’efficace propaganda del governo è stata così contraddittoria e caotica. Giorno dopo giorno vengono fatte comunicazioni contrastanti, le dichiarazioni del governo e quelle dei media statali non sono in sintonia. Vero è che i secondi ci rivelano meglio le intenzioni del governo su cosa vuole comunicare al suo elettorato: sui canali televisivi statali e sulle pagine Facebook pro-governative continua a essere promossa la narrativa filo-russa e gli “esperti” del governo davanti alle telecamere dicono, senza battere ciglio, che la guerra l’ha provocata l’Ucraina.

Dalla parte di entrambi, da solo

Orbán sta cercando di far passare ufficialmente il messaggio che, al di là della grande unità dell’Ue, l’Ungheria va avanti per la propria strada. A differenza di altri Paesi UE, non esporta armi in Ucraina e non ne permette neppure il trasporto, per non coinvolgere l’Ungheria nella guerra. Nel frattempo, il governo è in piena modalità da campagna elettorale, con il candidato premier dell’opposizione, Péter Márki-Zay, diffamato con il pretesto che vorrebbe mandare soldati ungheresi in Ucraina.

È interessante come la sicurezza sia diventata improvvisamente importante per il governo ungherese, visto che quando è scoppiata la guerra stava ancora ripetendo che le forze di difesa ungheresi sono in grado di difendere il Paese. Sempre per mantenere un equidistanza il premier ungherese ha rifiutato di schierare ulteriori truppe NATO nel suo Paese, a differenza degli altri Stati della NATO vicini all’Ucraina che hanno accolto a braccia aperte i nuovi soldati. Pochi giorni dopo, persino una spedizione di armi è stata considerata un rischio serio e il vice-premier Zsolt Semjén ha detto che se un missile fosse stato lanciato da Miskolc, la città ungherese dell’est starebbe stata rasa al suolo immediatamente. Un passo di qua, un messaggio di là. 

Martedì abbiamo potuto vedere il suo doppiogioco. Al Parlamento europeo, gli europarlamentari di Fidesz hanno votato per lo spostamento della Banca di investimenti russa e per la cessazione della cooperazione nucleare con Rosatom. Questa decisione sarebbe la fine del progetto per la centrale nucleare Paks 2. Ma il loro voto sembra non esser stato preso sul serio dal governo. Il giorno dopo, il Ministro a capo dell’Ufficio del premier, Gergely Gulyás, ha detto che la centrale nucleare verrà costruita e che la banca rimarrà dov’è.

Questi rifugiati non sono rifugiati

C’è un altro voltagabbana spettacolare del governo ungherese che non ha un rischio politico altrettanto pesante. Nel 2015 il governo ha costruito un muro, ha imprigionato rifugiati in fuga dalla guerra in Siria e scatenato una campagna d’odio contro di loro. I media statali erano pieni di notizie sulle minacce del terrorismo islamico, mentre i cristiani in fuga dai terroristi o dai regimi che perseguitano i cristiani venivano deportati in Serbia.

Nel 2022 chiunque può arrivare dall’Ucraina senza documenti, ma sarebbe stato un grosso rischio per la sicurezza nazionale se ad arrivare senza documenti fosse qualcuno dalla Siria. 

La differenza tra i rifugiati del 2015 e quelli del 2020 è palese: il colore della pelle. È anche innegabile che la percezione dei rifugiati dalle due diverse crisi dipenda fortemente da questo, anche se il governo ungherese descrive la situazione con eleganza dicendo che persone con una “cultura simile” stanno fuggendo da uno Stato vicino, e quindi è diverso.

Nel 2015 il governo faceva spesso una domanda ipocrita: perché le persone in fuga dai conflitti in Medio Oriente non scappano nei Paesi vicini? Sapevano bene che la maggior parte si rifugiava effettivamente nei Paesi confinanti, come ad esempio nella ragione del Sahel in Africa, e solo una minoranza si dirigeva in Europa. Centinaia di migliaia di Ucraini stanno facendo lo stesso: fuggono in Polonia, Ungheria e Romania. Ma non c’è ragione per cui non dovrebbero continuare il viaggio per andare verso Paesi più lontani, nella speranza di una vita migliore, visto che sono stati costretti a scappare dalla loro patria mentre questa viene distrutta.

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