La Difesa comune UE non c’è, il regalo per le lobby invece sì

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Ana Curic || ""
Ana Curic
Paulo Pena || ""
Paulo Pena
Manuel Rico || ""
Manuel Rico
4 aprile 2022
ACCELERAZIONE: La forza dell’Unione da 5mila uomini sarà (forse) pronta nel 2025, intanto si corre a comprare sistemi d’arma (senza alcuna trasparenza): godono solo i big del settore.
C’era un clima nuovo al Consiglio europeo di giovedì scorso a Bruxelles. Da sempre bistrattata come una politica gelosamente nazionale, la Difesa europea ora è diventata centrale nei discorsi dei capi di governo. 

La guerra “modellerà la politica europea per i decenni a venire”, ha detto l’Alto rappresentante per la politica estera, Josep Borrell. “Dobbiamo investire di più e meglio nelle capacità di difesa”, gli hanno fatto eco i leader nell’ultimo summit di Versailles. L’invasione dell’Ucraina era l’ingrediente mancante per quell’unità di vedute che ora possiamo leggere nella “Bussola Strategica”, il nuovo GPS politico dei 27: “L’UE contribuirà positivamente alla sicurezza globale e transatlantica, è complementare alla NATO, che rimane il fondamento della difesa collettiva per i suoi membri”. 

È la quarta bozza, riscritta in fretta e furia dopo le bombe russe. Per le altre tre ci sono volute 50 riunioni e 20 libri bianchi inviati da ogni Paese. Si litigava su tutto, soprattutto sulla percezione delle minacce: per la Francia il Sahel e il terrorismo; per i Paesi del Sud la pressione migratoria e il controllo del Mediterraneo; per i baltici e l’Est la sola minaccia è sempre stata Mosca. Nel novembre 2021 la parola “Russia” appariva solo 6 volte, nel documento finale ben 17. 

La ritrovata unione contro Putin non vuol dire però che siamo pronti a un esercito europeo. Nell’UE rimangono 27 politiche estere e di difesa, la NATO è il collante e l’operazione EU Rapid Deployment Capacity, appena approvata, con soli 5.000 uomini che dal 2025 potrebbero essere operativi, partirà solo se si troverà la volontà politica e gli Stati disposti a finanziarla.
 
Intanto, però, l’Europa ha cominciato a finanziare la produzione di armi. Il tabù è caduto nel 2015, dopo l’invasione russa della Crimea. La lobby delle industrie d’armi si è presentata a Bruxelles nel “Gruppo di personalità” riunito dalla Commissione per decidere il calendario futuro: su 16 ospiti 7 avevano un legame diretto con l’industria (Airbus Group, BAE Systems, Finmeccanica, MBDA, Saab, Indra e i lobbisti ASD), due politici, Michael Gahler e Elisabeth Gigou, sono da sempre sostenitori di una difesa europea. La società civile e le università erano assenti.

Poi sono arrivati la Brexit, Trump e i suoi attacchi alla NATO, gli attentati a Parigi e Bruxelles. Intanto le proposte del gruppo di esperti erano maturate. Nel 2017 è nata la Pesco, una cooperazione rinforzata tra 25 governi europei (fuori Danimarca e Malta) per coordinare dei progetti comuni. Nel 2017 è arrivato il PADR con 90 milioni per i primi 18 progetti di armi. Nel 2019-20 si è passati a 500 milioni con il programma EDIDP e 41 progetti. I maggiori beneficiari sono 4 paesi: la Francia, leader del settore, con 48 progetti, la Spagna 41, l’Italia 37 e la Germania 30. 

“Di solito si fa prima la politica estera, la politica di difesa, e poi si comprano le armi. Qui facciamo il contrario”, spiega Francesco Vignarca della Rete Italiana Disarmo. Il prof. Fabrizio Coticchia, dell’università di Genova, spiega che “la volontà di rinunciare a un pezzo di sovranità per decisioni comuni non c’è. Lo stesso vale per l’intelligence: un agente segreto francese non condividerà mai informazioni sulla Libia con un italiano o un tedesco. Per non parlare di come sono spartiti i progetti industriali di ricerca nelle armi, senza controllo democratico”. 

L’industria, quella grossa, ringrazia. Su 302 aziende che hanno ricevuto finanziamenti da EDIDP, cinque Airbus, Thales, Leonardo, Indra Sistemas e Dassault – partecipano a 23 dei 41 progetti, per un valore di 363 milioni. I 4 paesi beneficiari sono anche azionisti di queste società in un settore nella mani di pochi player aggrovigliati tra loro: Airbus possiede parte di Dassault, che controlla parte di Thales, che a sua volta possiede altre aziende (come Edisoft in Portogallo o Naval Group in Francia) o è partner di Leonardo per controllarne altre (Telespazio ed Elettronica). 

Sarebbe materia di indagine per l’Antitrust UE per capire se dei colossi così interdipendenti si muovono in un terreno di reale concorrenza e non determinano commesse e costo delle armi. I cinque colossi sono anche partecipati da tre grossi fondi americani, Blackrock, Vanguard e Capital, azionisti sia delle società europee che dei loro competitor americani Boeing, Lockheed Martin, Raytheon Technologies, General Dynamics e Northrop Grumman. Parte dei soldi pubblici per il riarmo UE, insomma, volerà via dall’Europa. 
Queste partecipazioni incrociate nello stesso settore dovrebbero essere materia dell’Antitrust, ma la Commissione ha risposto a Investigate Europe che si muoverà quando ci sarà una denuncia. È difficile che arrivi, perché anche le piccole imprese sopravvivono all’ombra dei colossi. “In Francia il governo e l’industria delle armi sono molto legati dice la deputata verde Hannah Neumann, membro della sottocommissione per la sicurezza e la difesa Quando i funzionari dei governi decidono l’assegnazione dei fondi UE, i lobbisti siedono quasi al tavolo”. 

Succede nel “Programme Committee”, un oscuro comitato dove i governi decidono ogni anno che programmi di armi finanziare insieme. Un gruppo di esperti “indipendenti”, scelti dai ministeri della Difesa, seleziona le proposte e aiuta la Commissione nella scelta di progetti e compagnie. Il nome degli esperti è segreto, per evitare dice Bruxelles che “siano messi sotto pressione”, però così nessuno può controllare se abbiano conflitti d’interessi. Nell’unica lista che siamo riusciti a vedere, del gruppo di esperti che consiglia il Commissario al mercato interno Thierry Breton, l’80% ha legami con l’industria. C’è anche un ufficio speciale dentro l’Agenzia europea per la difesa (EDA), chiamato “Porta d’ingresso”, per consigliare le imprese nel trovare altri fondi europei per progetti di difesa legati per esempio al clima, alla parità di genere o ai giovani. 

Chi è escluso completamente dai giochi è l’Europarlamento. Poteva votare sul programma annuale del nuovo “Fondo di Difesa”, ma Commissione e Consiglio hanno proposto di ridurre i suoi poteri a un semplice “avviso”, senza neppure ricevere i documenti: la maggioranza degli eurodeputati ha accettato questo nuovo corso. “Quando abbiamo incontrato i funzionari della Direzione Politiche industriali della Commissione – spiega Laetitia Sedou dello European Network Against Arms Trade – ci hanno detto ‘stiamo solo attuando un programma industriale, le vostre considerazioni etiche non ci riguardano’. Anche dal gabinetto di Federica Mogherini, all’epoca responsabile della politica estera UE, ci hanno detto che ‘sono solo programmi industriali, su cui non abbiamo controllo’. Così nessuno si prende la responsabilità del nuovo Fondo di Difesa”. 

Il Trattato europeo (articolo 41) vieta infatti di imputare al bilancio UE “spese derivanti da operazioni aventi implicazioni militari o di difesa” e così progetti e spese vengono fatti passare come “politica industriale” per “migliorare la concorrenza”. Niente di meno vero, come si è visto. “Il Fondo per la Difesa è stato presentato come un progresso per l’Europa. Ma per me, il fatto che gli Stati possano aprire il bilancio europeo e attingervi è una regressione per l’Europa, l’Europa diventa una vacca da mungere, una fonte di finanziamento senza vincoli democratici”, dice Sedou.

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