Il “Peace fund” che esporta armi. L’esperienza non insegna nulla


Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul nostro mediapartner Il Fatto Quotidiano il 28/03/2022.


Il 21 marzo i ministri degli esteri europei hanno deciso due cose importanti: la sospensione della più costosa missione militare europea, in Mali, e il raddoppio, a un miliardo di euro, delle armi da inviare all’Ucraina. Quest’ultima scelta nasce da una guerra scoppiata ai nostri confini, per l’Africa, invece, è la conseguenza del cambio di priorità e l’ammissione di un cocente fallimento. Entrambe le decisioni si appoggiano sul nuovo strumento legislativo creato nel 2021, lo European Peace Facility (EPF). Il nome è però ingannevole: l’Ue sperava, con l’invio di armi e uomini, di portare la pace, finora ha alimentato guerre e flussi migratori. 

Il nuovo meccanismo da 5 miliardi

L’European Peace Facility fund è uno strumento pensato durante la scorsa Commissione, quando Federica Mogherini ricopriva l’incarico di Alto rappresentante per la politica estera, dopo l’invasione russa della Crimea. Nato nel 2021, ha una dotazione di 5,7 miliardi per il 2021-2027, destinati a rimborsare i governi degli Stati membri che decidono di inviare un “supporto finanziario, tecnico o materiale” in teatri di guerra. La decisione va presa all’unanimità al Consiglio Ue, gli Stati organizzano l’invio di armi o uomini e l’Ue rimborsa. L’ultima missione, in Mali, ha avuto esiti disastrosi (la missione è stata sospesa) Il fondo finanzierà l’invio di armi all’Ucraina 

L’invasione russa dell’Ucraina ha accelerato le procedure. In poche ore si è deciso di usare 500 milioni per rimborsare i governi Ue che mandano armi a Kiev, poi la cifra è raddoppiata. Dopo pochi giorni è stato montato un hub di coordinamento in Polonia, con procedure ultra-rapide, inusuali per gli standard della burocrazia europea. Le armi sono arrivate in Ucraina, ma è difficile avere un resoconto dopo la consegna. Come faranno i funzionari del Facility Fund, che già prima della guerra si lamentavano di non avere abbastanza risorse, a controllare a chi andranno e che uso ne verrà fatto? Fonti a Bruxelles ammettono che non c’era tempo di entrare in questo genere di “dettagli”. Il servizio esterno dell’Ue si copre dicendo che “le decisioni sui rimborsi sono prese all’unanimità dai Paesi membri”. Ma le nostre analisi incrociate tra istituzioni Ue e Stati fanno sollevare molti dubbi sul sistema di finanziamento di armi ai Paesi terzi. 

Maturato nell’era Mogherini, tra l’invasione russa della Crimea e l’arrivo di Trump, il Facility Fund ha una dotazione di 5,7 miliardi nel Bilancio 2021-2027, destinati a rimborsare i governi Ue che inviano un “supporto finanziario, tecnico o materiale” in teatri di guerra. La decisione va presa all’unanimità al Consiglio Ue, gli Stati organizzano l’invio di armi o uomini e l’Ue rimborsa. Il controllo spetterebbe ai parlamenti nazionali, che però già controllano poco il proprio export di armi, figuriamoci quando i soldi sono europei. E così si è aggirato in un colpo solo l’articolo 41 del Trattato, che vieta all’Ue di partecipare alle guerre mentre il Parlamento europeo, trattandosi di un’operazione tra governi, è tagliato fuori da qualunque decisione e controllo. 

Dirk Vopel, deputato SPD nella commissione di difesa del Bundestag, conferma che “il Fondo per la Pace manca ancora di un controllo parlamentare” a Berlino. E da Strasburgo, Hannah Neumann, eurodeputata verde tedesca, spiega: “Noi siamo totalmente esclusi. Così non aiuteremo la difesa europea, ma gli azionisti delle grandi compagnie di armi”. 

Anche al Consiglio Affari esteri si sono accorti di quanto sia pericoloso il fondo per la pace che manda armi in giro per il mondo. Dopo aver approvato un extra-budget di 24 milioni per il Mali, a dicembre, una settimana dopo hanno ricevuto la doccia fredda dal governo provvisorio in carica a Bamako: le elezioni legislative previste il 22 febbraio venivano sospese sine die. La guerra in Ucraina ha aiutato i ministri europei a decidere di sospendere l’operazione africana. Andata avanti per quasi dieci anni, dal 2013, è costata più di tutte le altre operazioni militari (400 milioni). La European Union Training Mission, prima solo per il Mali, poi dal 2017 estesa a tutto il Sahel, è stata un cocente fallimento. Con i nostri soldati, provenienti da 25 paesi europei (anche dall’Italia), abbiamo formato 16.000 soldati maliani, alcuni di questi hanno fatto due colpi di Stato tra il 2020 e il 2021, entrambi guidati dal colonnello Assimi Goita, addestrato da tedeschi e francesi. 

È vero che nella capitale Bamako il primo colpo di stato è stato applaudito da molti, stanchi della corruzione e di come il governo avesse gestito i conflitti armati, ma noi avevamo negoziato con quel governo. I soldati maliani, formati dagli europei, sono stati poi coinvolti in molteplici violazioni dei diritti umani: esecuzioni extragiudiziali, sparizioni, torture documentate dall’Armed Conflict Location & Event Data Project, che riferisce come nel 2020 le forze statali maliane abbiano ucciso più civili dei gruppi jihadisti per i quali la Francia aveva mosso tutta l’Europa a impegnarsi in Mali. Nel frattempo nel Paese africano sono apparsi centinaia di mercenari russi della società privata Wagner, facendo scricchiolare le certezze degli europei. 

“Ci sono bambini rapiti, drogati e addestrati a combattere, bambine costrette a sposarsi. È da dieci anni che i paesi europei sono in Mali, ma non hanno risolto niente dice Soumaila Diawara, scrittore e poeta maliano, rifugiato politico in Italia I paesi europei stanziano miliardi per l’Africa, ma non si domandano dove vanno a finire”. 

Non va meglio sull’export di armi. In Ue non c’è una legislazione comune, ma l’impegno dei governi a notificare a un gruppo di lavoro sulle esportazioni di armi convenzionali (COARM), in seno al Consiglio, volume e Paesi destinatari. Se uno stato membro rifiuta una licenza di esportazione di armi a una nazione (per ragioni umanitarie o politiche), deve notificarlo attraverso COARM e così altri Stati membri possono offrirsi per effettuare quell’esportazione. 

Tra 2013 e 2020, su 323.602 licenze concesse, solo 2.210 sono state negate, lo 0,7%. Tutto, ancora una volta, senza trasparenza: le informazioni su quali Paesi negano le licenze sono classificate, tranne che nei Paesi Bassi. Le industrie di armi possono poi usare filiali in altri Stati per aggirare i divieti di esportazione di armi. La tedesca Rheinmetall, per dire, ha usato la sua filiale italiana per le bombe all’Arabia Saudita, poi trovate nello Yemen. Secondo i nostri dati, la Germania è oggi il paese che esporta più armi all’estero, seguita da Francia, Spagna e Italia.