Ecco la “trappola dei pesticidi”: i contadini ostaggio dei colossi

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Questo articolo è stato originariamente pubblicato il 27 giugno 2022 sul nostro media partner italiano Il Fatto Quotidiano.


Dieter Helm coltiva 750 ettari di terreno, insieme ai figli, nella regione di Prignitz, a nord-ovest di Berlino. Quando parla dei campi, parla anche di ecologia: “Il suolo è un organismo vivente, bisogna prendersene cura, è il nostro sostentamento”. Il figlio Holger mostra con orgoglio la striscia fiorita appositamente piantata ai margini di un enorme campo di grano. Api, farfalle e sirfidi torneranno a vivere lì insieme a uccelli di campagna, allodole, cardellini, pernici. Ma per lottare contro erbacce, infestazioni fungine e insetti, gli Helm usano pesticidi. Prima della semina applicano il glifosato, un veleno che uccide qualunque foglia al suo passaggio. In seguito spruzzano degli accorciatori di steli per evitare che il grano, riccamente fertilizzato e in rapida crescita, cada. Seguono i fungicidi contro la “ruggine”. Dieter sa che “sono sostanze altamente tossiche”, ma non può farne a meno “se dobbiamo produrre gli stessi rendimenti”.

Nell’Estremadura spagnola, Ildefonso Cabaníllas Corchado è disperato per la dipendenza dai prodotti chimici: “Coi pesticidi, gli affari peggiorano di anno in anno. Prima, con due o tre prodotti avevamo tutto sotto controllo, mentre ora dobbiamo fare varie combinazioni di pesticidi, il che rende tutto più costoso. È come se i parassiti avessero già uno scudo”. Dipendenza, rischi di produttività, margini all’osso: sono le paure degli agricoltori, che affrontano prezzi di energia e fertilizzanti schizzati alle stelle da un anno e mezzo e ora saliti anche per la guerra in Ucraina.

L’uso dei pesticidi chimici in agricoltura è controverso da molti decenni, da quando nel 1962 uscì il primo libro sul Ddt, Primavera silenziosa dell’americana Rachel Carlson. Da allora sono i convitati di pietra al banchetto dell’agricoltura europea. Alcune sentenze in Italia e Francia hanno stabilito un nesso diretto tra l’esposizione costante ad alcuni pesticidi e malattie come il Morbo di Parkinson. Le leggi attuali dell’Ue obbligano a usarli solo come “ultima risorsa” e a far un uso intelligente di pratiche naturali. Ma di fatto, l’abitudine, la mancanza di adeguate conoscenze dei contadini, il peso di una lobby potentissima, il bisogno di anticipare le previsioni di guadagno, rendono qualunque cambiamento quasi impossibile. L’Ong Foodwatch sta per pubblicare uno studio proprio dal titolo Lock-In pesticidi in cui spiega che l’uso prolungato dei fitofarmaci “ha reso fragili i sistemi di produzione agricola, creando una dipendenza auto-rinforzata dai pesticidi, che ha portato a un ‘blocco’ (lock-in) da cui non sembra possibile uscire”.

Il problema è che oltre la salute umana, è a rischio anche e soprattutto la salute del suolo e la scomparsa degli insetti, come le api, che servono anche ad assicurare l’impollinazione del 75% delle colture europee. Secondo la Commissione Ue, il 70% delle terre in Europa è “in condizioni malsane”, l’Agenzia europea per l’Ambiente scrive: “Se continuiamo a utilizzare il suolo come facciamo oggi, ridurremo anche la capacità della terra di produrre una quantità sufficiente di mangimi e cibo adatto al consumo umano”. Coi pesticidi la terra diventa sterile e “tra 10-15 anni rischiamo di avere una crisi alimentare in Europa – ha detto il vicepresidente della Commissione, Frans Timmermans, a Investigate Europe – non per la guerra in Ucraina”.

Secondo i dati di Foodwatch, i cittadini europei buttano via 80 milioni di tonnellate di cibo ogni anno, senza contare le colture che non vengono raccolte per i prezzi bassi, arrivando a 110 milioni di tonnellate. Cibo neanche tutto destinato al consumo umano diretto: l’82% delle calorie necessarie all’uomo è prodotto solo dal 23% della terra agricola disponibile; il restante 77% dei terreni è utilizzato per produrre mangimi.

La rotta di un’agricoltura intensiva e industriale andrebbe invertita subito, invece il richiamo a una produzione più sostenibile trova il muro dell’agroindustria. In gennaio ha aperto le danze uno studio dell’Università di Wageningen, finanziato da CropLife, lobby delle aziende produttrici di pesticidi: la riduzione dell’uso di pesticidi in Europa, si legge nello studio, “comporterà una diminuzione della produzione in media del 10-20%” con relativo aumento delle importazioni e calo delle esportazioni.

La strategia europea 

Bruxelles vorrebbe tagliare la chimica del 50% in 8 anni. Il problema: importeremo di più da Paesi senza vincoli 

CropLife è finanziata dalle 4 industrie leader del settore pesticidi: due sono tedesche – la Bayer e BASF; Syngenta con sede in Svizzera ma di proprietà della cinese ChemChina e Corteva, fondata dalle due americane Dow e DuPont. Controllano da sole due-terzi del mercato mondiale dei pesticidi, un business da 53 miliardi di dollari. Dal 2019 hanno avuto 69 incontri, due al mese, con Commissari europei e loro gabinetti. Ma sarebbero molti di più, se esistesse anche un registro degli incontri coi funzionari. La tedesca Bayer da sola spende a Bruxelles il budget più alto: oltre 4,25 milioni di euro all’anno. Solo Google, Facebook e Microsoft spendono di più per la lobby.

La nuova proposta di regolamento della Commissione di diminuire l’uso di pesticidi del 50% entro il 2030, spaventa l’industria, ma neanche tanto: se infatti un pesticida chimico è vietato nell’Ue, può comunque essere esportato. Quindi i veleni vietati nell’Ue possono andare nei Paesi in cui sono ancora consentiti e poi tornare da noi come prodotti importati. Ecco perché la Francia ha chiesto all’Ue, prima di qualunque riforma interna, regole simili per i prodotti importati.

Le multinazionali della chimica controllano tutta la catena agricola: forniscono ai contadini i pochi semi che resistono ai loro erbicidi velenosi, poi i loro consulenti vanno nelle fattorie a spiegare come e quando usarli. Un circolo vizioso, una gabbia. “La formazione dei contadini è un grosso problema”, dice Paolo Di Stefano, capo dell’ufficio europeo di Coldiretti: “Gli agricoltori devono essere accompagnati per modificare l’impostazione della lotta alle fitopatie. Bisogna investire massicciamente nella loro formazione, permettendo alle organizzazioni come Coldiretti di trasmettere le buone informazioni, togliendo spazio alle multinazionali private”.

C’è ancora molto lavoro, perché le più grandi compagnie che producono semi oggi nel mondo – Bayer (ex Monsanto), Dupont Pioneer, e Syngenta, 53% del mercato globale – sono anche leader nella produzione di pesticidi. Esiste pertanto un intreccio indissolubile fra chi produce semi e chi produce le sostanze contro le erbe indesiderate o gli insetti: si pensi all’erbicida “Roundup” di Monsanto e ai semi “Roundup Ready”, “costruiti” per la resistenza a questo prodotto. “Perchè l’uscita dalla trappola dei pesticidi sia economicamente vantaggiosa per gli agricoltori, l’abbandono va sussidiato”, dice Matthias Wolfschmidt, direttore strategico di Foodwatch: “Nella coltivazione dei cereali si può fare immediatamente”. Poi si potrebbe seguire il modello danese, che ha appena introdotto una tassa sulle sostanze più dannose: se inquini, paghi.

La nuova proposta di Bruxelles

L’esecutivo europeo ha presentato il 22 giugno una nuova proposta di Regolamento per ridurre di almeno il 50% l’uso dei pesticidi in Europa entro il 2030. Per la prima volta si chiedono obiettivi nazionali obbligatori e s’incoraggia l’uso di pratiche alternative in agricoltura. Una proposta che deve però ancora passare al vaglio dei governi e dell’Europarlamento: almeno 15 Paesi membri hanno già avanzato alla Commissione i propri dubbi.

Ad oggi, però, il bilancio Ue non impone “condizioni” per cambiare l’agricoltura. L’Europa distribuisce ancora un terzo del suo budget al settore, 55 miliardi all’anno, e chiede grandi impegni verso un’agricoltura sostenibile per la terra e meno impattante sul clima. Ma se gli agricoltori non invertono rotta, che succede? “Niente – spiega Damiano di Simine, della coalizione Cambiamo Agricoltura – i contadini prendono il sussidio europeo anche se non perseguono gli obiettivi richiesti, né ci sono premi per chi invece prova a cambiare. E intanto l’80% dei fondi agricoli per l’Italia va ancora al 20% di grandi aziende agricole, in gran parte nella Pianura Padana”.