Il grido disperato dei lavoratori delle RSA italiane

Paolo, OSS, Bologna

Paolo è OSS da più di vent’anni. Dice: “I controlli vengono fatti al telefono, le RSA sono avvisate una settimana prima”.

“C’è poco personale, quasi sempre un OSS è solo con 20-25 ospiti, allora da solo non riesce a girarli nel letto, ogni due ore, come sarebbe necessario e così si creano le piaghe da decubito. Le piaghe negli anziani, la prima causa di morte degli anziani, non vengono segnalate”. (Spiegazione di Paolo sulle piaghe: siccome è un’infezione, può raggiungere i nervi e arriva al cervello, provocando un ictus).

Le RSA sono diventate dei veri e propri lager. Quando un OSS si ritrova da solo di notte è obbligato a svegliare tutti i vecchi alle 4 del mattino, li fa mettere in fila con una serviette umida in mano, perché non c’è tempo per far loro il bagno, si lavano un po’ e via, la giornata corre veloce.”

“Si risparmia su tutto: sul cibo, sui medicinali, sui pannoloni”.

Lucia, OSS a Sereni Orizzonti

“Guarda la facciata: è tutta pulita, dipinta da poco di giallo. sembra tutto nuovo, invitante. Beh, dentro è tutto l’opposto: i rubinetti perdono acqua, si perde moltissima acqua, i bagni assistiti sono fuori uso, c’è sporcizia dappertutto. È tutto un degrado.

Ormai siamo noi OSS a fare le pulizie, ci chiedono di passare lo straccio per terra, lavare i piatti, anche se questo spetterebbe agli ausiliari e sono minuti di cure che togliamo agli ospiti.

Lavoro con la Sereni Orizzonti da più di dieci anni, già c’erano problemi con i turni prima, ma ora è lo sfacelo.

Intanto il cibo, ce n’è sempre di meno, meno scelta, non c’è alternativa per chi ha problemi di masticazione. Ma se qualcuno si lamenta, viene sospeso dal lavoro con una scusa qualunque, come è successo al cuoco, che ha osato lamentarsi. 

Poi, qui a Vinovo, ci sono dei malati con demenze gravi, spesso sono violenti. Bene, vengono tenuti insieme agli altri ospiti, questo non sarebbe permesso

Siamo due OSS per un piano con 26 ospiti, ma di notte c’è solo un operatore, potete immaginare lo stress. È un lavoro che ti distrugge la schiena, devi spostare anziani che spesso non riescono a muoversi. L’infermiera va via alle 15.00, se succede qualcosa di pomeriggio, noi non possiamo fare niente.”

Carlo, OSS, Viareggio (RSA acquisita a inizio 2021 da Korian-Segesta).

Carlo ha 24 anni. Lavora come OSS da un anno. Prima faceva il barista, ma con la chiusura dei locali dovuta alla pandemia si è dovuto trovare un nuovo lavoro per pagare il mutuo e mantenere compagna e due figlie. Ha seguito un corso di OSS e appena terminato è stato assunto in una RSA. Carlo dice che il suo lavoro è molto pesante e stressante, sia a livello fisico che mentale. Questo perché i ritmi sono intensi (spesso gli capita di lavorare più ore di quelle previste dal contratto) e le pressioni dei dirigenti, per la qualità e la velocità dell’operato sono costanti, sebbene Carlo ritenga che il numero del personale sia insufficiente per prendersi cura in modo adeguato di tutti gli ospiti. Molti colleghi, racconta Carlo, non reggono la pressione e se ne vanno appena capita loro la possibilità di lavorare in strutture sanitarie pubbliche. Anche Carlo sta aspettando quell’opportunità, perché crede che un posto di lavoro nel settore pubblico garantisca un salario più alto e sicuro. Per quanto riguarda, invece, il rapporto con gli ospiti e la qualità dei servizi offerti dalla sua struttura, Carlo non ha niente da obiettare, garantendo che sono di ottima qualità.

Pietro, educatore, RSA pubblica in Provincia di Vicenza.

Pietro ha 54 anni. Ha lavorato per circa trent’anni in una casa di cura pubblica in provincia di Vicenza. Tre anni fa si è licenziato perché ha ottenuto, tramite concorso pubblico, un posto da educatore all’Azienda ULSS 8 Berica – Centro Salute Mentale Vicenza. Pietro racconta che per dieci anni ha vissuto un vero e proprio inferno. Capitava che la mattina, prima di andare a lavoro, avesse conati di vomito, e che quando tornava a casa mangiasse in modo famelico a causa dello stress (Pietro ritiene che ciò sia la causa del suo essere in sovrappeso). Il malessere di Pietro inizia quando viene cambiata la direzione nella gestione della struttura in cui lavorava. A capo di essa, viene messa una giovane donna intenzionata a tagliare i costi della struttura. Pietro sente che il suo ruolo di educatore non viene in alcun modo riconosciuto dalla direttrice, che gli nega uno spazio di lavoro proprio (finisce per lavorare sul tavolo della mensa) e la possibilità di avere appresso a sé gli strumenti per svolgere le sue funzioni educative con gli ospiti. Inizia così una serie di scaramucce, battibecchi e dispetti che culminano in varie lettere di richiamo e una causa vinta per mancata giustificazione al licenziamento. Quello che più colpisce di questa storia è il clima di sospetto che aleggia tra i colleghi, con la paura costante che il confidare di essere oggetto di abuso di potere da parte di un superiore possa essere riferito ai piani alti e diventare motivo di ritorsione. Di modo che, come dice Pietro, ci si trova ad essere completamente soli nel dolore. 

Valentina, educatrice, non profit a Verona.

Valentina ha 33 anni. Fa l’educatrice in un grande complesso con varie sezioni, tra cui, oltre la casa di cura, un ospedale psichiatrico. Ed è qui che lavora Valentina. Anche lei, dice di essere molto insoddisfatta di come questo ruolo viene considerato all’interno delle strutture sanitarie. Inoltre, le capita spesso di svolgere anche altre mansioni che niente hanno a che vedere con ciò per cui è stata assunta, come ad esempio la gestione del bar della struttura. Anche nella sua testimonianza emerge la paura nel denunciare le cose che non vanno bene all’interno di queste strutture sanitarie, perché è meglio non andare contro il sistema. Valentina mi spiega di essere molto sensibile riguardo al tema del trattamento dei pazienti, anche perché l’anno scorso le è morto il padre malato di Alzheimer, a lungo ospite in una casa di cura. Mi racconta due episodi molto gravi che riguardano i suoi pazienti psichiatrici. Nel primo caso, un paziente si era completamente svestito e intrufolato nel letto di una paziente. Secondo Valentina, il personale medico avrebbe dovuto valutare una terapia diversa invece di imbottire di sedativi l’uomo, al punto da farlo dormire per ben tre giorni. Nel secondo caso invece un’anziana viene ripetutamente legata a una sedia. Valentina ha chiesto più volte agli infermieri se i familiari di questa donna fossero a conoscenza di questa pratica, e se avessero firmato il consenso informato. Il personale le ha sempre risposto di sì, ma non le ha mai fatto vedere il documento. Tre giorni fa, Valentina si è proposta di far fare la videochiamata all’anziana con i familiari, dicendo che l’avrebbe tenuta sulla sedia legata, come in effetti sta sempre. A quel punto, la direzione ha deciso di slegare l’anziana e far partecipare alla videochiamata un’altra educatrice e non Valentina. Valentina ha subito pensato che questa fosse la prova del fatto che i familiari non erano a conoscenza di come fosse tenuta l’anziana nella struttura, ossia legata a una sedia. Valentina dice che le case di cura sono delle carceri e che gli abusi sugli anziani, con violenze più o meno celate, non sono una rarità.

Valentina, inoltre, contesta l’operato dei medici e degli infermieri: “usano un quantitativo spropositato di farmaci e sedativi per calmare i pazienti, perché questa è la via più semplice e diretta per tenerli a bada, invece di intraprendere un percorso terapeutico che richiede sforzi e tempo.” Con il Covid le cose sono peggiorate, perché adesso i familiari non possono far visita o possono solo di rado, e quindi il senso di impunità è aumentato. Come ultima cosa, Valentina racconta che i controlli da parte di enti esterni ci sono, ma che sono dei bluff, dato che vengono concordati con preavviso e che prendono in considerazione i dati delle cartelle più che la reale condizione degli anziani. 

Maria Caterina, familiare, madre in RSA a Bologna

“Ho una madre di 82 anni con la demenza da quasi 12 anni. L’amministratore di sostegno esterno ha deciso, d’accordo con mio fratello, di mettere mia madre in casa di riposo nonostante mia madre non ci volesse assolutamente andare, però non potendosi ribellare, l’hanno messa lì dentro. 

Nella prima casa di cura, una RSA privata di 120 posti con una retta di tremila euro al mese, il personale trattava le persone in modo brutale, come se fossero dei sacchi di patate. Gli davano una roba gelatificata, orripilante, e io quando tornavo il pomeriggio la trovavo con la bocca piena perché non voleva deglutire quella roba collosa che le davano da bere. 

Dopo tre mesi, mia madre si è trasferita in un’altra RSA, quella attuale, che è gestita da una parrocchia. L’avevo scelta perché credevo che essendoci solo 40 posti ci sarebbe stato un trattamento più umano, rispetto alle altre che sapevo essere molto più grandi con 100, 150 posti. 

A parole, in questa casa di cura di matrice religiosa c’è un alto livello etico. Almeno in quello che dicono e scrivono. Fanno la messa due volte a settimana e il direttore invoca sempre l’aiuto della misericordia per fare al meglio il proprio dovere. Poi quello che succede è tutto diverso.  

Non c’è nessun tipo di rispetto, né per la morte né per la malattia. Come mi ha detto una OSS, morto uno ne arriva un altro. È come se ci fosse sempre merce, c’è sempre gente che paga.

Per l’igiene personale, il paziente viene cambiato quando passano le OSS, secondo il turno prestabilito. Non gliene frega niente se mia madre se l’è fatta sotto da due ore. Rispettare il ritmo di lavoro stabilito, rifare i letti, era molto più importante del fatto che mia madre stesse ad aspettare nella sua diarrea. Si vantavano di non legare le persone, ma se uno faceva casino lo mettevano a letto, tiravano su le sponde e lo lasciavano a tentare di scavalcarle per ore. 

Una paziente che viveva in camera con mia madre, e che era rimasta sola al mondo, era sempre affamata. Tutti ridevano perché cercava sempre di rubare la roba dai piatti degli altri appena si avvicinava al tavolo. Poi ho capito che questo comportamento derivava dal fatto che non le davano da mangiare. La portavano a mensa, le mettevano il tovagliolo al collo, e poi non le davano da mangiare. La stessa cosa accadeva con il bere. Spesso le lasciavano il bicchiere pieno vicino al comodino, ma lei non riusciva a prenderlo perché aveva le mani anchilosate.

Adesso riesco a vedere mia madre 20 minuti alla settimana. Per un anno, durante il Covid, non sono mai potuta andarla a trovare. Mia madre, in questo anno di Covid, è dimagrita di 6 chili.

Livia, OSS, RSA di Orpea

“Ho 57 anni e faccio l’OSS dal 2019. Prima facevo assistenza a casa a una persona anziana piuttosto autonoma. Ho fatto un corso di OSS a Treviso molto serio, della durata di 15 mesi, che ci ha preparato al concorso pubblico. Non è scontato, perché non tutti hanno gli attestati in regola, anche se si vede nella pratica chi sa fare e chi no. 

Quando lavori in una RSA devi fare i conti con chi sta in alto, e se in alto c’è una persona che fa finta di non vedere certi problemi, devi fare i conti con te stesso e decidere. Nella prima RSA dove ho lavorato una donna anziana è caduta dalle scale ed è morta. Non si possono lasciare le persone in condizioni di pericolo. Questo è ciò che accade quando i dirigenti non ascoltano i pareri delle persone che lavorano a stretto contatto con loro. 

Ho lavorato a Marghera durante il Covid, in una RSA di lusso di proprietà di Orpea. Chiedevano aiuto in giro perché erano rimasti in pochi a lavorare, dato che molti dipendenti erano a casa perché positivi al Covid. 

Hanno deciso di fare la sanificazione senza avvisare nessuno. Verso le 7.30 di sera hanno fatto uscire bruscamente tutte le persone che erano nelle camere, svuotando gli armadi e tirando tutto sui letti. 

Là ci sono stati più di 30 morti per Covid. All’inizio della pandemia, i dispositivi di sicurezza erano scarsi e non venivano usati con frequenza. 

Nonostante fosse una residenza di lusso, il numero del personale era sottostimato. I turni si facevano sempre in sotto organico e molti operatori, appena avuta la possibilità, se ne sono andati a lavorare in case di cura pubbliche. Per mancanza di personale, ti trovi a fare delle cose che da solo non riesci. Certo, pagare un numero minore di OSS è un bel risparmio su cui l’RSA trae profitto. Non puoi dirmi che tu sei una multinazionale quotata in Borsa e poi mi trovo la domenica mattina a badare da sola a 21 persone. Questa era la normalità. 

Sulla carta, ci sono degli standard garantiti, ma in pratica non è così. Quando tu non mi metti la pronta disponibilità o il piano di emergenza, cosa succede quando un OSS la mattina non si presenta?”

Adesso lavoro in una RSA pubblica di piccole dimensioni. Là la qualità del servizio è decisamente migliore. Possiamo accudire i pazienti in modo più umano dedicando più tempo a ciascuno.