I governi per una maggiore concorrenza nei mercati digitali

Anche la lobby più forte a volte non ce la fa. In questo caso si tratta dei manager delle più grandi piattaforme tecnologiche in Europa. Secondo Lobbycontrol e Corporate Europe Observatory le dieci più grandi compagnie digitali, da Google a Booking, spendono 32 milioni di euro l’anno per finanziare la loro rete europea di associazioni, think-tank e uffici di lobby. Nonostante tutto questo, non possono più impedire che le nuove norme che limiteranno il loro potere di mercato vengano approvate. Nei negoziati sulla legge sui mercati digitali (Digital Markets Act – DMA) proposta dalla Commissione UE, la vasta maggioranza dei 27 Stati membri si è detta favorevole all’introduzione di leggi più severe e ha respinto i tentativi di alcuni Paesi di annacquare il testo normativo. Quello che segue è quanto hanno scoperto dai diplomatici coinvolti i giornalisti di Investigate Europe e Netzpolitik.org. Il Gruppo di lavoro sulla concorrenza, al Consiglio, è giunto a un accordo sul testo che, il prossimo 25 novembre, diventerà la base per i negoziati finali con il Parlamento UE. Secondo i rappresentanti del governo tedesco, la proposta è frutto di compromessi, ma contiene anche “miglioramenti significativi” se paragonata alla proposta di legge iniziale della Commissione, del novembre 2020. In realtà il Consiglio non ha apportato modifiche importanti, nonostante ci siano state dure prove da superare, a porte chiuse, che avrebbero potuto indebolire la norma.

Si può, perciò, prevedere che gli operatori di piattaforme digitali con più di 45 milioni di utenti o 10mila clienti aziendali, chiamati “gatekeeper”, in futuro dovranno conformarsi a 20 requisiti per prevenire pratiche sleali contro i concorrenti, o quantomeno dovranno farlo in Europa. Per esempio, una delle condizioni poste dalla legge stabilisce che Amazon non potrà più mettere in maggiore evidenza sul proprio sito i propri prodotti a discapito di quelli di altri venditori all’interno della piattaforma. Allo stesso tempo, tutti i venditori che sono presenti sulla più grande piattaforma di vendita al dettaglio saranno liberi di offrire i propri prodotti e servizi da altre parti e a prezzi diversi. Lo stesso principio si applica agli albergatori su Booking. In questo modo si potrebbero evitare o ridurre le costose provvigioni applicate dagli operatori di queste piattaforme (che raggiungono fino al 30% del prezzo di vendita).

Un’altra condizione punta a spezzare il duopolio attraverso cui Google e Apple forzano i propri servizi ai fornitori di app e agli utenti, attraverso i loro sistemi per smartphone e per cui in cambio ricevono dati o commissioni elevate. L’App Store di Apple diventerebbe quindi aperto a quei venditori che non fanno pagare per le vendite in-app tramite Apple Pay. La politica controversa della compagnia di bloccare metodi di pagamento alternativi, contro cui la casa di produzione di videogiochi Epic Games (la creatrice di Fortniteha intrapreso un’azione legale, non potrebbe più essere messa in pratica. D’altro canto, gli utenti dovrebbero avere la possibilità di cancellare le app pre-installate e usare servizi alternativi che non rubano i loro dati. La legge è pensata per ritornare, almeno parzialmente, a quello che era il centro focale di Internet: il fatto che gli utenti potessero scegliere tra diverse applicazioni di produttori diversi sulle stesse piattaforme. Anche se questo livello di interoperabilità venisse applicato inizialmente solo a “servizi secondari” (come i servizi di pagamento e la verifica dell’identità), sarebbe un primo passo nel progressivo abbandono delle pratiche monopoliste dei grandi giocatori.

E le possibili multe sono drastiche. Chi non si adeguerà ai requisiti richiesti dovrà pagare fino al 10% del proprio volume d’affari annuale complessivo. Per Apple si tratterebbe di 24,4 miliardi di dollari USA.

La lobby si fa sentire dall’Irlanda e dal Lussemburgo

Il Consiglio UE non dà informazioni su come i 27 rappresentanti nazionali siano arrivati a queste decisioni. I funzionari coinvolti sono impegnati nelle normali attività legislative che, secondo l’attuale Trattato dell’Unione Europea, devono essere portate avanti “nel modo più aperto e il più vicino al cittadino possibile”. Ciononostante, il Segretariato dell’organo legislativo europeo più potente rifiuta le richieste per l’accesso a documenti che potrebbero fornire informazioni sulle posizioni prese dai singoli rappresentanti dei governi e le discussioni su di esse. Ai fini di questo articolo, però, un addetto ai lavori ci ha dato l’accesso a una lista di emendamenti, tabelle e verbali di riunioni rilevanti.

Questi documenti rivelano che i governi che avrebbero voluto indebolire e annacquare la legge in più punti sono quelli di Lussemburgo e Irlanda. Ciò è particolarmente significativo perché praticamente tutte le grandi aziende tecnologiche americane hanno i loro quartier generali europei o in Irlanda (Google, Facebook, Apple) o in Lussemburgo (Amazon). I due Stati non solo aiutano queste aziende a eludere le tasse ma spesso le supportano anche in altri ambiti, come la protezione dei dati.

Un esempio del tentativo di alleviare l’impatto delle norme si può vedere nell’Articolo 16 della proposta di legge, che i funzionari della Commissione hanno chiamato “bomba nucleare” in uno dei documenti del negoziato. L’articolo permette alla Commissione di condurre indagini di mercato nei casi di “non-ottemperanza sistemica” alla legge, vale a dire nei casi in cui una piattaforma influente continua ripetutamente a violare la legge europea per anni. In questi casi si potranno adottare “misure strutturali”, fino anche allo scioglimento di un gruppo, senza dubbio l’arma più forte della legge UE contro i colossi digitali.

A tal fine, Germania, Francia e Paesi Bassi hanno chiesto che gli Stati possano avere maggiore voce in capitolo su quando la Commissione lancia indagini di mercato di questo tipo. La proposta del Consiglio adesso è che anche un singolo Stato possa chiedere alla Commissione di, quantomeno, prendere in considerazione un’indagine sotto l’Articolo 16. A ciò si sono opposti strenuamente alcuni Stati: l’Irlanda ha messo in guardia contro l’interferenza politica mentre il Lussemburgo ha parlato di misura “sproporzionata”. La maggioranza, però, non è rimasta particolarmente colpita da queste argomentazioni.

Anche in altre occasioni gli stessi due Stati hanno insistito affinché si arrivasse a formulazioni più deboli e a diritti di ricorso ridotti. È palese, ad esempio, nell’Articolo 9, che elenca possibili motivi di esenzione dagli obblighi per i gatekeeper. La Commissione vorrebbe concedere deroghe solo se lo richiedono la morale, la salute o la sicurezza pubbliche.

Il governo irlandese, però, voleva far includere tra i motivi di esenzione anche la sicurezza dei dati o addirittura la protezione di segreti commerciali. Questa manovra legale avrebbe permesso alle compagnie tecnologiche di raggirare gli obblighi praticamente a proprio piacimento. Probabilmente non si tratta completamente di una coincidenza ma la proposta Irlandese somiglia molto al ragionamento che fa la lobby Digital Europe, di cui le grandi corporazioni sono membri paganti. Anche Digital Europe ha messo in guardia sugli obblighi per i gatekeeper citando la sicurezza informatica.

Il collegamento è diventato ancora più chiaro quando, a metà settembre, nel Working group sulla concorrenza il Lussemburgo ha chiesto (con il supporto di Finlandia, Lituania e Slovacchia) di rimuovere i servizi cloud dalla lista di servizi soggetti a requisiti speciali. Amazon, il più grande fornitore di servizi cloud al mondo, ha il proprio quartier generale in Lussemburgo. Nel negoziato, però, i simpatizzanti irlandesi e lussemburghesi delle corporazioni non sono riusciti ad averla vinta. Praticamente nessuna delle loro proposte di emendamento sono arrivate alla proposta che ora sta aspettando di essere approvato.

Gli esperti però continuano a storcere il naso. “Dovremmo ritenerci soddisfatti del fatto che il Consiglio non abbia indebolito le proposte della Commissione”, ha detto Agustin Reyna dell’associazione di consumatori BEUC. Secondo lui è piuttosto un’occasione persa, per esempio per quanto riguarda la disposizione sull’interoperabilità, che non viene applicata a servizi chiave come i social network o i servizi di messaggistica, cosa che sarebbe necessaria per dare un’opportunità ai fornitori più piccoli di emergere contro i giganti come Facebook.

Germania e Francia devono farsi da parte

Anche i rappresentanti di Germania, Francia e Paesi Bassi hanno subìto una sconfitta. In un’iniziativa condivisa, i tre hanno provato a dare alle autorità nazionali per la concorrenza, come il Federal Cartel Office tedesco (Bundeskartellamt), una maggiore influenza diretta. Secondo la proposta dei tre stati, le autorità nazionali dovrebbero avere l’opportunità di condurre i loro procedimenti e imporre loro stessi gli obblighi, una specie di “turbo” (se comparato alla lentezza della Commissione UE) che i grandi Stati possono avere.

Sul verbale è stato registrato che una “larga maggioranza” degli Stati membri hanno respinto questa richiesta con il supporto della Commissione. Ma l’alleanza tedesco-franco-olandese è riuscita a far passare la clausola per cui le autorità nazionali possono dare inizio alle proprie indagini e mettere a conoscenza la Commissione dei risultati ottenuti.

Sempre gli stessi tre Stati non sono riusciti a far approvare la loro proposta per limitare l’effetto della legge sui mercati digitali a un numero ristretto di compagnie. Questo avrebbe, ad esempio, permesso ai Paesi Bassi di non far applicare la legge a Booking, che ha la sua base ad Amsterdam. Anche l’europarlamentare conservatore tedesco Andrea Schwab, capo-negoziatore del Parlamento europeo per la legge, vorrebbe che la definizione di gatekeeper fosse ristretta. Ma persino questa proposta non è riuscita ad arrivare alla maggioranza in Consiglio: nel relativo articolo del progetto di legge degli Stati UE i limiti sono rimasti invariati.

Si prevede che da dicembre in avanti i rappresentati del Consiglio dovranno negoziare il testo legislativo definitivo con i rappresentanti del Parlamento. Ci sono ancora molte discussioni in atto sulle posizioni da prendere. Le informazioni che sono fuoriuscite finora fanno intuire che il Parlamento vorrebbe intervenire in modo molto più ambizioso rispetto al Consiglio contro i monopolisti digitali. Marcel Kojala, l’europarlamentare del partito Pirata che si occupa di negoziare a nome dei Verdi, è deciso a voler aumentare in maniera significativa gli obblighi sull’interoperabilità e quindi sa che milioni di utenti sono dalla sua parte. Martin Schirdewan, della Sinistra Europea, ha criticato il disegno di legge in un modo simile, definendolo una “bozza titubante”, e ha chiesto di andare all’attacco dei “modelli di business dannosi di Big Tech”.

In casa socialista invece, l’europarlamentare Evelyn Gebhardt, chiede che anche le attività primarie di Google e Facebook vengano sottoposte alle norme: le pubblicità targhettizzate. Creando profili individuali con i dati degli utenti e offrendo pubblicità che vanno a colpire target specifici, le corporazioni hanno creato un’infrastruttura globale di sorveglianza che è anche stata usata più volte per manipolare l’elettorato. “Dobbiamo inserire nella legge quantomeno una ulteriore richiesta per cui gli utenti possono decidere liberamente se vogliono essere profilati o meno”, chiede Gebhardt, che ha trovato supporto per la sua proposta persino tra conservatori e liberali.

Questo articolo è stato inizialmente pubblicato in tedesco dal nostro media partner Tagesspiegel.